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Il controllo della Psiche

Cose dell'altro mondo

Nel 1853 il drammaturgo, romanziere e pubblicista francese Eugène Nus (1816-1894) ed alcuni suoi amici – come lui giovani ed intellettualmente brillanti – delusi dalla piega che avevano preso le vicende politiche in Francia in seguito alla repressione della rivoluzione del 1848, decisero di dedicarsi ad un passatempo, da poco importato dall'America, allora molto in voga nei salotti parigini: quello dei tavolini rotanti. Il gruppo di cui Nus faceva parte si riuniva a Parigi in un appartamento di Rue de Beaune, sede del giornale repubblicano Démocratie pacifique di cui Nus era stato redattore, soppresso dal nuovo regime. Lo spirito con cui questi amici vollero provare a far danzare il tavolino era tutt'altro che serio ed impegnato: invece di giocare a tric-trac, come erano soliti fare, volevano divertirsi con qualcosa di diverso e di più esotico. Fatto sta che fin dalla prima seduta il tavolo usato per la prova, descritto da Nus come pesante e massiccio, cominciò ad oscillare sotto le loro dita, restando poi fermo in equilibrio su due gambe e mostrando resistenza ai tentativi di farlo tornare nella sua normale posizione. Cominciò poi a muoversi per la stanza, in varie direzioni, assecondando la volontà dell'uno o dell'altro membro del gruppo che, a turno, decideva come dovesse muoversi.

Chi legge il francese, può trovare la cronaca di queste sedute nel piacevole e vivace libro di Nus Choses de l'autre monde (1880), scaricabile dalla Biblioteca. Sebbene gli amici fossero meravigliati e sorpresi dall'esito di quello che consideravano poco più che un gioco alla moda, non ne furono affatto impressionati dal punto di vista intellettivo: in quell'epoca, infatti, le nuove scoperte scientifiche, che erano all'ordine del giorno, rivelavano e spiegavano aspetti della natura che fino a pochi decenni prima erano ancora avvolti nel mistero. Nus ed i suoi amici, persone intelligenti e dotate di spirito critico talvolta piuttosto caustico, attribuirono il fenomeno a qualche forza elettrica di natura ancora sconosciuta che emanava dai loro corpi: «Questa forza è in noi ed emana evidentemente da noi, poiché è necessario il nostro contatto per animare questo legno inerte. Animare è la parola giusta, perché, una volta che le nostre mani si sono posate sul tavolo, esso non è più una cosa, ma un essere». Comunque, siccome il gioco sembrava loro divertente ed interessante, decisero di continuare: si procurarono un tavolino da gioco rotondo a tre piedi (in francese: guéridon), che si muoveva più velocemente e sembrava danzare a tempo, se veniva suonato qualche pezzo di musica. Nus osservava inoltre che il tavolino sembrava dotato di una certa intelligenza, perché i suoi movimenti eseguivano – come se fosse un cagnolino ben addestrato – gli ordini che gli venivano dati, anche solo mentalmente.

Un giorno un amico di Nus, Arthur de Bonnard, informò il gruppo che anche a casa sua passavano il tempo col tavolino, ed in particolare i suoi figli si divertivano molto con uno spirito di nome Jopidiès. Infatti, disse Bonnard agli increduli amici, il tavolino non solo poteva muoversi, ma sapeva anche parlare, e rispondeva alle domande che gli venivano rivolte, col metodo dell'alfabeto: un colpo per la a, due per la b, e così via (il metodo più macchinoso e meno pratico che si possa usare). A Nus ed ai suoi amici non restava che provare, ed infatti chiesero subito al tavolino come si chiamava, e ne ottennero la risposta: Pythagoras... A questo punto, sempre più incuriosito ed anche affascinato da questo fenomeno, Nus cominciò a prendere nota di tutte le domande che venivano rivolte al tavolino e delle relative risposte. Ovviamente, le domande erano poste verbalmente ad alta voce da qualcuno dei partecipanti, e potevano anche esser concordate e scritte preliminarmente, mentre era facile registrare le risposte, dato che dovevano essere scritte lettera per lettera. Il gruppo di Nus riconosceva al tavolino una sua personalità intelligente, che si manifestava autonomamente nelle risposte date alle domande, risposte che venivano valutate criticamente – e talvolta salacemente contestate – dai partecipanti alle sedute, che non mostravano alcun atteggiamento fideistico o reverenziale nei confronti di una presunta entità comunicante di natura spirituale.

Un fatto curioso è che, quando venivano chieste definizioni di un termine o di un concetto, il tavolino – su richiesta del gruppo di Nus – doveva rispondere con una frase di senso compiuto composta da 12 parole. Ebbe allora inizio quello che Nus chiamava «il dizionario delle 12 parole»: gli amici chiedevano al tavolino di dare una definizione di parole come coscienza, infinito, fisica, geologia, amore, ed una quantità di altri termini riportati nel capitolo 4 del libro di Nus, ed il tavolino rispondeva immediatamente dettando, lettera dopo lettera, una definizione di senso compiuto di 12 parole. Talora i partecipanti erano insoddisfatti della definizione data, ed allora esprimevano vivacemente la loro disapprovazione ed imponevano, per così dire, al tavolino di offrire una definizione migliore; ma spesso erano colpiti dall'originalità e dalla profondità di certe definizioni, anche se potevano lasciare a desiderare quanto a precisione. In ogni caso dovevano riconoscere che le risposte erano date immediatamente e senza alcuna preparazione, pur se con la lentezza imposta dal metodo dell'alfabeto. Cominciarono così a porsi qualche domanda in merito alla personalità dell'interlocutore misterioso che si esprimeva tramite il tavolino, alle cui affermazioni non erano più così indifferenti.

Un vivace dibattito ebbe luogo come reazione alla definizione di morte data dal tavolo: «Cessazione dell'individualità, disaggregazione dei suoi elementi, ritorno alla vita universale». «Cessazione dell'individualità di questa vita, disaggregazione dei suoi elementi, cioè di ciò che costituisce la forma che la manifesta, può andar bene! – commentarono Nus ed i suoi amici – Ma che senso ha: ritorno alla vita universale? Significa che la personalità morale si dissolve, che la morte è la dissolvenza completa dell'essere? Allora cos'è quel Dio di cui ci parli continuamente, e cosa vuole da noi? Che vada al diavolo assieme a te, e, tutt'e due, lasciateci tranquilli! A che scopo dobbiamo evolverci? Più saliremo in alto, più la caduta sarà profonda; più avremo acquistato, più perderemo. Dunque apprendere, migliorarsi, crescere interiormente, è una cosa stupida. A quale scopo? Per le altre entità effimere che compariranno per qualche anno su questa Terra, destinate a svanire come noi? Non ne vale assolutamente la pena, e tutti coloro che ricercano il bene e si sforzano di perfezionare queste bolle di sapone che vengono chiamate spiriti e coscienze, sono ben stupidi se si agitano in questo vuoto e si affaticano per niente».

Il tavolino non rispose a queste ragionevoli critiche, né quel giorno né nei giorni seguenti. Ma siccome i membri del gruppo continuavano ad incalzarlo con domande sull'argomento, qualche giorno dopo dettò: «Raccomando fin d'ora a voi tutti la pazienza e la sottomissione. Troppo spesso ritornate su quello che ho definito; questo significa dubitare stupidamente del mio potere». «Non si tratta del tuo potere – replicarono gli amici –. È che ciò che tu dici va al di là del buon senso comune. Almeno non dubitiamo del tuo potere intellettuale, da qualsiasi cosa provenga, dato che, nonostante le resistenze della nostra ragione, le tue affermazioni ci preoccupano e ci turbano. Tu hai affermato sulla morte qualcosa che noi rifiutiamo assolutamente. Noi non possiamo ammettere che l'anima si disperda e che la coscienza venga annientata, che la vita sia un'illusione, la morale una sciocchezza, e la giustizia una finzione... Se noi ti abbiamo frainteso... spiegati con maggior chiarezza; se non vuoi spiegarti adesso, dicci almeno una parola che ci soddisfi e ci rassicuri». Dopo una pausa carica di tensione, con una lentezza ed una maestà impossibili a descriversi – secondo quanto scriveva Nus – il tavolino batté le seguenti lettere, con lunghe e solenni pause tra l'una e l'altra: ADSUMDEUS... (Adsum Deus, Dio è qua). Al che uno degli amici di Nus, Brunier, si alzò dicendo: «Ecco, ne ho abbastanza per oggi: è assurdo. Meglio giocare a tric-trac!».

Anche in seguito, quando l'argomento fu ripreso, la contrapposizione tra il gruppo di Nus – che cercava di argomentare logicamente e razionalmente la posizione di rifiuto del riassorbimento della coscienza individuale in una indistinta e non meglio definita entità cosmica – ed il tavolino – che insisteva sulla necessità di un atteggiamento fideistico basato sul riconoscimento del potere insindacabile di Dio – venne attenuata solo in parte dalla concessione, da parte del tavolino, che l'individualità cosciente degli esseri umani che avevano operato in funzione del bene sarebbe stata preservata anche dopo la morte. E mentre Nus metteva in evidenza tutte le variabili della condizione umana, che influenzano e determinano le scelte di ogni persona ed impediscono di valutare il risultato della vita di ognuno di noi come se tutti partissimo dalle stesse condizioni iniziali, il tavolino insisteva sul valore del libero arbitrio, attribuendo esclusivamente all'essere umano la responsabilità delle sue scelte: una posizione che Nus non esitava a definire, a ragione, come darwinismo spirituale! Infatti, così come nel mondo naturale gli organismi geneticamente più adatti ad affrontare le variabili ambientali sopravvivono e si riproducono, anche nel mondo degli spiriti (o delle anime) – secondo quanto affermato dal tavolino – avverrebbe qualcosa di analogo: i buoni mantengono la loro individualità, gli altri vengono riciclati!

Da dove provengono le enunciazioni psichiche?

Questo interessante episodio offre lo spunto per porci una domanda alla quale anche Nus cercò di dare una risposta: da dove avevano origine quelle affermazioni di carattere psichico – ed in ogni caso intelligenti, indipendentemente dal fatto che fossero affidabili o meno – che venivano enunciate dal tavolino e che non coincidevano, come si è visto, con le convinzioni coscienti dei partecipanti alle sedute? Va anzitutto osservato che, pur riconoscendo il carattere psichico dei nostri stessi pensieri e dei nostri ragionamenti, il nostro io cosciente è in grado di riconoscerli come propri quando sono il risultato di un processo di elaborazione mentale – compiuto tramite il funzionamento del cervello – nel quale esso sia stato attivamente coinvolto, soprattutto se la coscienza di cui è dotato si è sufficientemente ampliata ed evoluta nel corso della vita. In un modo o nell'altro, ogni essere umano è un sintonizzatore ed un elaboratore – più o meno dotato ed efficiente – di materiale proveniente dalla psiche. Ma nel caso delle affermazioni comunicate dal tavolino, da quale sistema psichico erano state elaborate?

Nus ipotizzava che un gruppo di cervelli interconnessi tra loro, quali erano quelli dei cinque amici che partecipavano regolarmente alle sedute, costituisse una sorta di ricevitore autonomo – indipendente da quanto ognuno di loro poteva coscientemente elaborare mediante la propria attività mentale – mediante il quale venivano captate le affermazioni enunciate dal tavolino. Quest'ipotesi è interessante, sotto vari aspetti, soprattutto perché può dar conto degli elementi psichici presenti nelle comunicazioni medianiche. Quando noi elaboriamo coscientemente i contenuti della psiche sintonizzati dalla nostra attività mentale, accettandone alcuni, rifiutandone altri, e trasformandone altri ancora, sottoponiamo comunque ad una valutazione il materiale psichico, attestandone l'esistenza, anche quando lo scartiamo come irragionevole o non conforme alla realtà. D'altra parte, è un fatto ben noto ed evidente che, nell'ambito della psiche, quello che io scarto o rifiuto – nonostante il fatto che sia comunque pervenuto alla mia coscienza – può benissimo essere accettato e valorizzato da qualcun altro. Dunque il tavolino di Nus poteva enunciare materiale psichico sintonizzato dalla rete di cervelli dei partecipanti, pur se in contrasto con quanto ognuno di loro riteneva ragionevole e giusto.

Vi sono tuttavia altri elementi di cui è necessario tener conto, che non ci consentono di confermare la validità dell'ipotesi di Nus, o quanto meno ci impediscono di considerarla come sufficiente a spiegare tutti gli aspetti dei fenomeni medianici. Anzitutto Nus stesso, nel capitolo 9 del suo libro, mise in evidenza gli aspetti bizzarri – che potremmo definire umorali e perfino capricciosi – del comportamento del tavolino, tutt'altro che costante ed affidabile: mentre in alcune sedute non si muoveva di un millimetro, rifiutandosi di rispondere a qualsiasi domanda, in altre si spostava qua e là in modo imprevedibile e caotico, sfuggendo anche al contatto delle mani dei partecipanti, come se fosse veramente posseduto da qualche spirito irrequieto. Anche nel battere le lettere dell'alfabeto, il comportamento era variabile: a volte i colpi venivano scanditi in modo regolare e ben intellegibile, con pause sufficientemente prolungate tra una lettera e l'altra, mentre altre volte la frequenza dei colpi variava, le lettere non venivano ben comprese e dovevano essere ripetute, con risultati aleatori. Nus non notò mai alcuna relazione tra le prestazioni del tavolino e l'umore degli assistenti, dunque venne alla conclusione che il comportamento del tavolino fosse imprevedibile ed arbitrario, come se fosse influenzato da una personalità autonoma. Col tempo le comunicazioni del tavolino divennero sempre meno frequenti e sempre più incerte ed inaffidabili, e di conseguenza Nus ed i suoi amici decisero di interrompere definitivamente le sedute.

Probabilmente una o più persone del gruppo di Nus erano dotate di un potere medianico, anche se non ben sviluppato, e questo rese possibile i fenomeni, almeno per un certo tempo. Infatti, in assenza di un medium, non basta un gruppo, anche se ben affiatato, per produrre i fenomeni in questione e le relative comunicazioni, anche se Nus affermava che in quell'epoca i tavolini giranti e parlanti erano il passatempo più in voga a Parigi, dove non c'era praticamente una sola casa in cui, alla sera, non si giocasse col tavolino o con la planchette. Può darsi che proprio la confidenza nel fenomeno  e la certezza che si potesse verificare ne favorissero la diffusione, altrimenti non si comprende come tantissime persone potessero indulgere, per proprio diletto, in un'attività i cui risultati erano evidentemente esposti al sospetto di essere prodotti in modo più o meno inconsciamente fraudolento. Siamo ricondotti, ancora una volta, al modo in cui la psiche manifesta i suoi effetti nei sistemi culturali umani e nelle persone che ne fanno parte: oltre alle sintonie psichiche che coinvolgono l'io cosciente, e che possono entrare in circolazione in un network di cervelli, ve ne sono altre che si manifestano in forme inconsuete, e che danno l'impressione di provenire da una sorgente aliena.

Come nel caso del tavolino di Nus, anche in altre comunicazioni medianiche si trova un invito – più o meno perentorio – rivolto agli esseri umani affinché assumano un atteggiamento fideistico e non ragionevolmente critico nei confronti di una divinità considerata come detentrice non solo di un potere assoluto, ma anche di una forma di suprema sapienza che, tuttavia, non può essere compresa dagli umani a causa dei loro limiti mentali. Questa posizione, che è stata fatta propria, in passato, da alcune istituzioni religiose, tra cui la Chiesa cattolica, ha un'origine molto antica, ed è determinata da quelle sintonie della psiche che vengono attivate non solo dalla debolezza dell'essere umano nei confronti delle forze della natura, ma anche dalla condizione precaria in cui può trovarsi una persona si fronte al potere generato dalle organizzazioni sociali e conferito ad uno o più individui, talvolta sotto l'antica formula «per grazia di Dio» (sostituita da quella più recente «per volontà della nazione») oppure, più pragmaticamente, per un impulso interiore verso la conquista del potere: come diceva Napoleone della sua corona, «Dio me l'ha data, guai a chi la tocca». Si tratta dunque, in ogni caso, di dinamiche della psiche che agiscono collettivamente, facendo leva sulla debolezza dell'io e sulla sua subordinazione alle paure di fondo (anch'esse di origine psichica): paura della morte e della sofferenza.

Va riconosciuto che altre comunicazioni medianiche sono molto più articolate e sfumate a questo riguardo: non solo evitano di fare riferimento alla contrapposizione tra un'entità divina onnipotente ed onnisciente – oltretutto definita come infinitamente buona e giusta – ed una condizione umana fragile, vulnerabile, pressoché insignificante e spesso incline al male, proprio a causa della sua debolezza, ma riconoscono all'esperienza umana la dignità di un utile percorso di evoluzione spirituale. Il carattere psichico di queste comunicazioni è dunque sostanzialmente diverso rispetto a quelle che costringono l'essere umano in una condizione di impotenza, di ubbidienza acritica e di compiacenza fideistica nei confronti di un essere divino a lui così superiore. I cambiamenti avvenuti negli ultimi tre secoli nelle dinamiche psichiche della nostra cultura hanno valorizzato il ruolo della persona individuale nell'ambito delle strutture sociali organizzate, promuovendo tuttavia un funzionamento come automa umano per ogni individuo. Tuttavia la psiche umana, nel suo complesso, continua a manifestarsi in modo conflittuale e disarmonico, accentuando i contrasti tra una persona e l'altra anche nell'ambito di uno stesso gruppo sociale: oggi quasi nessuno è più così ingenuo da credere che l'altro veda il mondo come lo vede lui. Queste differenze nelle sintonie della psiche rendono la vita umana senza dubbio varia ed interessante quando si accordano tra loro in una continuità armonica, ma portano al caos conflittuale quando sono in aperto contrasto, fino al punto che, all'interno di una società, una persona vede l'altra come un avversario da combattere, o perfino come un nemico da eliminare: il millenario conflitto tra ciò che una persona ritiene un bene ed un'altra un male si manifesta ormai apertamente, come una specie di guerra civile all'interno della psiche umana.

La condizione dell'io cosciente

Prendendo coscienza di questo stato di cose, l'io viene a trovarsi nella difficile condizione di dover difendere le proprie elaborazioni psichiche, se gli sembra che queste rappresentino un valore al quale non intende rinunciare. Nello stesso tempo deve riconoscere, esaminando la sua vita trascorsa e la condizione in cui si trova l'io degli altri esseri umani, che ognuno è istintivamente e naturalmente portato a difendere le sintonie della propria psiche, quali che esse siano: il potere di assoggettamento che una volta era attribuito alla divinità, adesso viene riconosciuto alla psiche umana, la quale però, come abbiamo evidenziato, presenta in sé elementi conflittuali che l'io cosciente – entità prettamente individuale – non può risolvere. La psiche infatti, per poter creare la tensione energetica che le è propria, si frammenta in miliardi di esperienze individuali, e l'io cosciente – condizionato dalla gamma delle sintonie della psiche che deve sperimentare, e che a volte lo avviliscono o lo tormentano – non può certo pretendere di controllare la psiche nel suo complesso. In fondo, molti umani vivono nella speranza che la psiche diventi in futuro meno conflittuale e sempre più benevola nei confronti dell'io cosciente, valorizzando quegli aspetti che più risultano gradevoli per ciascuno di noi: si tratta tuttavia di un futuro che appare ancora molto remoto, ammesso che questa speranza possa mai realizzarsi.

In questo stato di cose, l'io cosciente non può che rivolgere la propria attenzione ad un'entità astratta rispetto alla condizione reale di questa vita, un'entità che sia in grado di consigliarlo e di guidarlo nel percorso di progressiva liberazione dalle contraddizioni, dalle disarmonie e dai conflitti della psiche. Quest'entità, che io chiamo spirito, non è altro che la controparte dell'io cosciente, esistente in una dimensione diversa da quella umana, con la quale l'io è destinato a fondersi una volta terminata l'esperienza di questa vita. La dimensione dello spirito è libera sia dai conflitti che caratterizzano la psiche umana, sia dalle avversità e dalle difficoltà naturali con le quali deve confrontarsi l'organismo umano per le proprie esigenze di sopravvivenza. Infatti, i comandi psichici come: «vivi, cerca di sopravvivere, ama la vita, goditi la vita, cerca il successo nella vita, resta più che puoi attaccato alla vita», che tanto potere esercitano sull'io cosciente, sono pressoché privi di significato per lo spirito, il quale può tutt'al più provare interesse per qualche aspetto dell'esperienza psichica umana. Il fatto è che l'io riflette le necessità imposta dalla natura all'organismo vivente, il quale in ogni caso non può sottrarsi al ciclo temporale della vita ed ai rischi ai quali la vita stessa è assoggettata, mentre lo spirito si trova in una condizione del tutto diversa. Il coinvolgimento dell'io nella vita prevede la sperimentazione di tutte le fasi della stessa – a meno che non venga interrotta anzitempo – e delle relative sintonie psichiche, compreso il declino delle facoltà psicofisiche proprio della vecchiaia.

Senza la collaborazione e l'aiuto dello spirito, l'io cosciente resta in balia delle dinamiche della psiche che lo coinvolgono, sia di quelle che riesce, in qualche modo, a controllare, sia di quelle dalle quali viene soggiogato: controbilanciando il potere della psiche, lo spirito offre all'io una condizione di equilibrio più vantaggiosa per la sua liberazione. Ci si può allora chiedere come mai siano relativamente pochi i casi in cui l'io riesce a stabilire questa connessione cosciente con lo spirito: nella maggioranza degli esseri umani, infatti, l'io cosciente vive tutta la vita sotto l'influenza delle dinamiche psichiche che lo coinvolgono e lo dominano, senza nemmeno riuscire ad elaborare una critica intelligente nei confronti di tale condizione, che io ho definito come automa umano, che viene acquisita ed accettata come naturale e normale. Il motivo principale di questo stato di cose è che la nostra cultura attuale è essenzialmente psicologica e collettiva, e dunque è orientata a considerare l'io cosciente come un fedele suddito che si deve adattare alle dinamiche dominanti della psiche – quali che esse siano – e che comunque deve vivere in funzione delle esigenze psichiche che vengono sintonizzate dalla sua mente. Concetti come la liberazione dell'io e l'esistenza dello spirito non sono nemmeno presi in considerazione dalla nostra cultura, che anzi li stigmatizza come sterili fantasie.

La stessa religione viene oggi considerata dalla nostra cultura come un'esigenza psicologica, da assecondare e da controllare in quanto necessaria per il buon funzionamento del sistema collettivo nel quale le energie di ogni individuo vengono incanalate per poter essere utilizzate. Una persona può benissimo vivere senza essere religiosa, comportandosi onestamente, in accordo con quanto gli suggeriscono le sintonie della psiche nelle quali viene coinvolta: anzi, talvolta può anche venir considerata come un cittadino modello, il cui comportamento risulta più armonioso di quello di molte persone religiose. Tuttavia, per ogni individuo che manifesta un certo orientamento psichico, c'è qualcun altro che ne mostra uno opposto, data la complessità e l'intrinseca conflittualità della psiche umana, che produce comunque i suoi effetti: per il solo fatto di essere messo al mondo, ogni nuovo organismo umano – il cui cervello sia in grado di funzionare – sperimenterà comunque una gamma di dinamiche della psiche che ne influenzeranno anche il comportamento e le azioni. La condizione iniziale dell'io è quella di uno spettatore più o meno passivo ed impotente nei confronti delle dinamiche psichiche che il destino gli riserva, e solo il progressivo sviluppo della coscienza, via via che l'esperienza della vita procede, può aiutarlo a liberarsi dalla sudditanza nei confronti della psiche.

La liberazione dell'io non va confusa né con ciò che viene socialmente considerato come il successo nella vita, né con la felicità umana. Queste condizioni sono senz'altro preferibili per l'io rispetto ai loro opposti, perché risultano gratificanti in quanto caretterizzate da piacevoli e talvolta euforici stati d'animo, dai quali l'io si sente attratto e premiato. Essi dipendono tuttavia da dinamiche della psiche che in certi individui si sviluppano in modo particolarmente favorevole, almeno in alcuni periodi della loro vita, allorquando le risorse di cui dispongono e le circostanze in cui vengono a trovarsi concorrono a determinare il loro successo ed a stimolare quei particolari stati d'animo. In questi casi l'io resta subordinato a dinamiche psichiche di carattere temporaneo, il cui vantaggio è quello di essere seducenti per la loro immediata e piacevole fruibilità: non c'è nulla di strano nel fatto che l'io se ne senta attratto, salvo che in alcuni casi queste dinamiche funzionano come esche che attirano l'io in una trappola, in quanto si trasformano col tempo in sintonie psichiche di tutt'altra natura. Dal punto di vista di un io la cui coscienza si sia sufficientemente evoluta, le sintonie della psiche positive e piacevoli possono essere fruite purché ne sia ben chiaro il carattere temporaneo e la loro dipendenza dalle condizioni della vita (compresi i programmi socioculturali che le determinano), e – soprattutto – purché non richiedano una forma di assoggettamento ed una rinuncia a valori sentiti dall'io come fondamentali.

La storia personale dell'io – determinata, come abbiamo visto, dalle risorse psicofisiche di cui dispone, dai programmi socioculturali che riceve e dagli eventi ambientali in cui il sistema corpo-mente viene coinvolto – ne condiziona le scelte. Resta sempre, tuttavia, un margine di libertà, un'opportunità offerta all'io di sottrarsi al completo assoggettamento alle dinamiche della psiche che caratterizzano la vita umana: è come una porta che si apre ogni tanto per poi richiudersi quasi subito, dando però all'io la possibilità di varcare quella soglia. Naturalmente non posso generalizzare, perché non conosco direttamente la condizione di ogni io che vive o che è vissuto in questo mondo, anzi, conosco solo me stesso, ma la mia impressione (o forse la mia speranza) è che ad ognuno di noi esseri umani – indipendentemente dalla nostra storia personale – sia offerta l'opportunità di essere liberi: nel momento in cui decidiamo di varcare quella soglia, stabiliamo un canale di comunicazione col nostro spirito. Ma finché l'io resta vincolato alle sole esigenze del suo organismo e della psiche, è costretto a fare i conti con un sistema soggetto al degrado ed alla dissoluzione. Come si vede, si tratta di una scelta precisa che non può essere compiuta se non dall'io, cioè da ogni individuo vivente nella propria autonomia: non è fondata su un'oggettività incontestabile, tale da renderla una scelta praticamente obbligata per chiunque sia in possesso di adeguate facoltà mentali, ma – questo sì – su un percorso evolutivo per la coscienza intelligente, che si esercita nell'acquisire e nell'elaborare il maggior numero possibile di informazioni sulla vita umana.

Potrei affermare, a questo punto, che l'io può sentire e seguire il richiamo dello spirito se è già predisposto in questo senso: questo dipende, per così dire, dalla stoffa di cui è fatto l'io, una stoffa che può essere molto diversa da persona a persona, e che l'esortazione a conoscere se stessi può indurci ad esaminare ed a decifrare. Ma vi è anche una qualità intrinseca alla natura dello spirito, che determina l'efficacia del suo richiamo e la possibilità di risvegliare l'io: è difficile, infatti, che uno spirito completamente addormentato possa esercitare un'influenza tale da liberare l'io dall'identificazione con le sintonie della psiche che lo coinvolgono e lo attraggono. Come si è detto, l'io e lo spirito possono essere considerati come le due facce di una stessa medaglia: lo spirito rappresenta la condizione dell'io svincolata dalle contingenze della dimensione terrena e dalla conflittualità delle dinamiche della psiche che la caratterizzano e che possono tormentare l'io. All'io viene data la libertà di seguire il richiamo dello spirito, ma affinché questo possa avvenire è necessario che la sua coscienza sia sufficientemente sviluppata da consentirgli un certo distacco nei confronti della vita e delle sintonie psichiche che ne derivano: il che non significa rinunciare all'interesse per alcuni aspetti della vita umana e per le esperienze che essa rende possibili, ma implica una serena posizione di non attaccamento alla vita e di non assoggettamento (incondizionato) alle condizioni che la vita può imporre mediante le lusinghe delle esperienze psichiche gratificanti o il timore di quelle che possono causare sofferenze.

Lo scopo della vita cosciente

L'io vive per il solo fatto che un nuovo organismo umano è stato formato in conseguenza delle leggi naturali della sessualità che hanno determinato l'accoppiamento (spesso consenziente, ma a volte no) dei genitori di quell'organismo. Sebbene l'aspetto più importante della vita umana sia costituito dalla coscienza e dal processo di evoluzione intelligente nel quale essa è coinvolta, l'io non è in grado di conoscere e di comprendere – almeno nel corso della vita umana – lo scopo ed il significato di quanto avviene su questo pianeta (per non parlare dell'universo!). Tutto quello che l'io può fare è approfondire la conoscenza di se stesso e cercare di interpretare e di valutare criticamente – alla luce delle risorse di cui dispone – quello che emerge nella sua coscienza. Ovviamente, può leggere, apprendere ed interpretare anche tutto quello che altri esseri umani rendono diponibile alla conoscenza collettiva mediante i mezzi di comunicazione che siamo in grado di utilizzare. Le elaborazioni e le proposte di origine psichica in merito all'esistenza di un progetto e di una regìa nella condizione umana e nell'evoluzione sociale dell'umanità restano per noi inverificabili – ed in gran parte anche incomprensibili per la nostra intelligenza – e dunque non possono costituire affidabili elementi di conoscenza: tutt'al più, possono essere accolte (o rifiutate) sulla base di valutazioni sentimentali, che risultano in qualche modo appaganti o tranquillizzanti per l'io cosciente.

Nonostante ciò, è senz'altro possibile condurre delle osservazioni su diversi aspetti della vita umana, e soprattutto sulle manifestazioni della psiche che ne derivano, e dedurne degli elementi conoscitivi che possono farci intuire l'esistenza di entità dotate del potere di influenzare da una parte la natura e dall'altra la psiche umana. Per esempio, la conflittualità della psiche è un dato di fatto: la concordia, l'armonia e la collaborazione degli intenti all'interno di un gruppo più o meno ampio di esseri umani sono considerate come dei beni preziosi, da perseguire e da tutelare, proprio perché non di rado prevale la conflittualità, che determina il desiderio ed il bisogno di vincere sull'avversario o sul nemico di turno e, di conseguenza, l'esigenza di difendersi, anche preventivamente, dalle minacce e dai pericoli che l'altro, l'avversario, può rappresentare per noi. Ma i conflitti della psiche possono anche manifestarsi nell'ambito individuale della nostra mente, per esempio come reazione alle interazioni con altri esseri umani ed alle condizioni che ne derivano. In ogni caso, poiché la conflittualità della psiche ha conseguenze penose da sopportare per l'io cosciente, sembra senz'altro lecito domandarsi da cosa abbia origine: va tuttavia osservato che l'io stesso, nella sua ordinaria condizione di assoggettamento alle dinamiche della psiche che lo coinvolgono, si lascia spesso inebriare dalle emozioni positive determinate dalla vittoria sull'avversario e, comunque, dall'ottenere un vantaggio seppure a danno di un'altra persona o di un altro gruppo umano.

Quand'anche volessimo attribuire le conflittualità della psiche umana all'origine naturale, e dunque animale, del nostro organismo, gli interrogativi che sorgono dalla constatazione di dati di fatto restano più che legittimi. Per esempio, l'esistenza degli animali predatori, che hanno bisogno di uccidere altri organismi per sopravvivere, è un dato di fatto, che non corrisponde ad alcuna necessità: nel mondo vegetale gli organismi competono per le risorse, e vi sono anche piante parassite, ma questa competizione avviene in modo tutto sommato armonioso. Anche tra gli animali erbivori vi può essere competizione per le risorse, che tuttavia si traduce in una limitazione del numero delle nascite quando le risorse scarseggiano. L'eliminazione violenta di organismi animali per consentire ad altri organismi animali di sopravvivere è la manifestazione di un preciso intento naturale. Quest'intento si estrinseca nell'evidenza dei processi evolutivi, cioè nelle dinamiche stesse mediante le quali si producono gli organismi individuali delle diverse specie animali, indipendentemente dall'attribuzione a questa o a quella entità – per noi umani invisibile – di natura superiore o divina, che la nostra psiche ci suggerisce.

Si può obiettare che il processo evolutivo naturale è di per sè sovrano ed indifferente, e non deve rendere conto delle modalità con cui la sua creatività viene messa in atto, ma – al di là delle valutazioni che la nostra psiche ci suggerisce – è l'evidenza stessa dei fatti che ci dimostra che le cose non stanno in questi termini, dato che l'umanità ha modificato gli equilibri della natura, dapprima utilizzando le risorse degli ambienti naturali, e poi sfruttandole in modo da trasformare tecnologicamente aree sempre più vaste del pianeta, per adattarle a finalità del tutto diverse rispetto a quelle della natura. È dunque innegabile che l'umanità è la manifestazione di un intento che entra in antagonismo con la natura e fa quanto in suo potere per asservirla ai suoi scopi. La maggior parte delle culture umane ha lottato contro le forze naturali ed ha contrastato le dinamiche evolutive: un aspetto particolarmente significativo di questa lotta sono le difese adottate dagli umani contro quelle che vengono definite malattie, causate da parassiti, da batteri o da virus, organismi (pluricellulari, unicellulari o virali) che agiscono in conformità alle leggi dell'evoluzione, e che noi umani facciamo il possibile per eliminare.

Per molti secoli il dominio dell'umanità sulla natura è stato psicologicamente percepito come un valore, ed i successi conseguiti dagli umani mediante le scoperte scientifiche ed il progresso tecnologico hanno suscitato stati d'animo positivi, di orgoglio, di ammirazione e di soddisfazione, nei confronti della nostra intelligenza creativa. Solo di recente gli umani cominciano ad avere dei dubbi in merito agli effetti dei loro interventi di alterazione degli equilibri naturali, ma anche in questo caso le preoccupazioni umane sono motivate essenzialmente dalle ricadute negative che tali trasformazioni dell'ambiente naturale possono avere per la stessa umanità, e non dal rispetto per la natura in sé. Ovviamente, poiché il comportamento umano è determinato quasi sempre dalle istanze psichiche – sia di origine naturale, sia trasmesse culturalmente – alle quali l'io è assoggettato, possiamo avere l'impressione che gli umani siano come i pezzi di un gioco di scacchi che i giocatori (il Bianco e il Nero) possono muovere, usare e sacrificare a loro discrezione, determinandone le azioni tramite il funzionamento della psiche. È inutile chiedersi chi siano i giocatori e se abbiano una loro autonoma e reale personalità in questa o in altre dimensioni: sia che li immaginiamo come alieni tecnologicamente evoluti provenienti da un altro mondo, sia che vogliamo attribuire loro una natura divina, i fatti non cambiano, e fintanto che l'io cosciente non si sarà svincolato dal suo assoggettamento alle sintonie psichiche che lo controllano, non potrà fare a meno di svolgere diligentemente il suo ruolo di automa umano, impegnato sulla scacchiera al servizio di questo o di quel giocatore.

Una volta che l'io sia diventato ben cosciente delle condizioni che la vita impone – mediante l'esperienza diretta della propria vita e le informazioni acquisite sulla vita degli altri esseri umani – può sentirsi in sintonia con l'uno o con l'altro dei tre seguenti orientamenti: 1) amare la vita umana per quello che essa è, con le sue luci e le sue ombre, cercando di ottenere quanto di positivo essa può offrire, ma accettando anche tutti gli aspetti negativi della vita che colpiscono gli altri in termini di sofferenze, di conflitti, di miserie e di ingiustizie; 2) non amare la vita umana a causa delle sofferenze che essa comporta, per se stessi come per gli altri, ma continuare a vivere perché l'istinto di sopravvivenza ha comunque il sopravvento su ogni altra considerazione, anche nella speranza di poter migliorare la propria condizione, o perché si ritiene che vivere sia un preciso dovere nei confronti di se stessi o degli altri che hanno bisogno di noi; 3) non amare la vita, e dunque porre intenzionalmente fine alla propria prima del suo termine naturale o accidentale, che comunque è inevitabile per ognuno di noi.

Uno stato intermedio tra il primo ed il secondo è dato da coloro che decidono di impegnarsi per migliorare il mondo, cioè le condizioni di vita proprie e degli altri. Si tratta di una posizione, generata da particolari sintonie della psiche che coinvolgono l'io cosciente, solo apparentemente logica ed ecomiabile, in quanto: i suoi effetti non possono essere applicati a chi già ha sofferto ed è morto; quasi sempre gli effetti positivi ottenuti nei confronti di un problema lo trasformano in un problema di tipo diverso, e talvolta ancora più complesso; spesso si vede solo una faccia della medaglia, cercando di intervenire nei confronti di ciò che si vede, senza comprendere che i nostri interventi avranno effetto anche sulla faccia nascosta; come ho cercato di evidenziare, molti conflitti sono intrinseci alla psiche umana, anche in relazione alla divergenza di obiettivi tra la psiche e la natura, e dunque non possono essere risolti semplicemente dalla buona volontà di alcuni esseri umani. Questo non significa che l'intenzione, e le conseguenti azioni, per migliorare le condizioni della vita umana non siano necessarie: sono anzi indispensabili, per creare quell'equilibrio che mantiene un certo ordine, per quanto precario, nelle condizioni dell'umanità; tuttavia rientrano pur sempre nelle dinamiche di origine psichica, anche se possono essere considerate di ordine più evoluto rispetto a quelle altre dinamiche della psiche che determinano competizione, conflittualità, sfruttamento, distruzione e sofferenza.

Per molte persone, il significato della vita consiste proprio in quest'impegno per migliorare le condizioni generali dell'umanità (il cosiddetto progresso), assecondando intenzionalmente un disegno le cui finalità restano per noi sconosciute: alcune di queste persone ritengono che il loro impegno in questa vita verrà ricompensato, in un modo o nell'altro, in una futura esistenza in un'altra dimensione, mentre altre persone sono semplicemente convinte che questo sia il modo giusto di vivere la vita umana, indipendentemente dal fatto che vi sia o meno un'esistenza dopo la morte. Ovviamente, coloro che si impegnano in questo senso devono avere un obiettivo, che viene spesso indicato con l'espressione generica: il bene dell'umanità. Tuttavia, è un dato di fatto che spesso questo obiettivo viene perseguito, in buona fede, con metodi diversi, proprio in ragione della sua natura psichica: dunque, sarebbe più corretto dire che l'obiettivo è ciò che una persona crede sia il bene dell'umanità, e questo ci riconduce alle contraddizioni ed ai conflitti causati dalla frammentazione della psiche umana in miliardi di esperienze individuali.

Vi è un quarto orientamento con il quale l'io cosciente può sentirsi in sintonia, un orientamento che attualmente è del tutto minoritario, e che può essere indicato come: la via dello spirito. Si tratta dell'impegno dell'io cosciente per riconoscere la propria più autentica essenza già nel corso della vita umana, indipendententemente dagli eventi ambientali, dai condizionamenti sociali, dalle lusinghe con cui la psiche lo alletta, lo gratifica e lo irretisce, e dalle pene e le sofferenze con cui lo intimorisce, lo minaccia o lo tormenta. È bene sottolineare il fatto che, pur utilizzando sempre il termine io per indicare la nostra autentica essenza, vi è una sostanziale differenza tra la condizione dell'io che si identifica con le istanze della psiche che lo coinvolgono e quella dell'io che cerca di distaccarsi da esse, per non parlare dell'io che se ne è già liberato definitivamente. La via dello spirito è un percorso, che è possibile compiere già nel corso della vita umana, verso una meta che diventerà più chiara solo quando questa vita si sarà conclusa. Esso consiste in un continuo esercizio di irrobustimento e perfezionamento della nostra coscienza, che non ci impedisce di vivere la vita, ma rende progressivamente l'io cosciente sempre meno sottomesso alle dinamiche della sua psiche: sotto questo profilo può essere considerato un percorso di liberazione.


 

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